Verde resiliente per città moderne

Dai problemi possono nascere opportunità per ripensare la pianificazione urbana tenendo conto anche dei cambiamenti climatici. Un approccio complesso ma di sicuro effetto
La furia del vento che lo scorso 5 marzo ha devastato molte zone dell’alta Toscana e, in particolare Pistoia, producendo ingenti danni al patrimonio arboreo delle città e delle aree boscate, con ripercussioni sui trasporti e le infrastrutture, fa tornare alla memoria i molteplici avvertimenti ripetuti da meteorologi ed esperti di fisica dell’atmosfera  in merito ai cambiamenti climatici: fenomeni che, a questo punto, non sono più teorici ma osservabili e misurabili con l’esperienza diretta.
Le modifiche al clima, a prescindere dal dibattito sulle cause, ci interessano in quanto produttori, progettisti o esperti del verde, poiché pare plausibile aspettarsi in futuro una certa serialità degli episodi meteorologici estremi, oltre ad alterazioni sensibili, ad esempio, delle quantità e distribuzioni  temporali delle precipitazioni.
La retorica politica, l’ampia platea della comunicazione pubblicitaria e del giornalismo e, più in generale, un certo linguaggio contemporaneo si sono impadroniti di termini evocativi (talora senza nemmeno padroneggiarli bene): dopo ecologico, sostenibile, efficientamento, rigenerazione, è il momento di resilienza.

La natura della parola resilienza è tecnica: in fisica e in ingegneria indica la capacità di un materiale di resistere a un urto, assorbendo l’energia che viene rilasciata in misura variabile dopo la deformazione. In ecologia e biologia la resilienza è l’attitudine di riparare un danno di un organo o una comunità di esseri viventi, a seguito di una perturbazione o di un improvviso evento catastrofico.
La resilienza è diventata di gran moda, in quest’epoca di profonda crisi (economica, sociale ed ambientale) forse  perché suggerisce la capacità di un “sistema” (ad es. una foresta, un’impresa, una specie faunistica, una rete di computer) di superare un trauma senza perire, riuscendo a reagire con capacità di adattamento.
Questo tipo di prestazione, una sorta di autoriparazione, ha a che fare con le caratteristiche che in futuro dovranno avere i parchi, i giardini e più in generale, le colture e l’organizzazione produttiva delle aziende.
Naturalmente, là dove la casualità di masse d’aria che si scontrano tra loro, si è materializzata lo scorso mese con raffiche a oltre 160 km/h (velocità che secondo la Scala Beaufort per la misurazione della forza del vento, corrisponde al suo valore massimo, denominato uragano) non ci si può aspettare che alberi e infrastrutture non subiscano danni anche gravissimi.
Lo scenario di desolazione che ci si presenta all’indomani degli eventi che hanno distrutto migliaia di piante di alto fusto, non dovrebbe cedere il passo allo spirito emotivo di reazione immediata ed alla volontà, pur comprensibile, di voler ripristinare il prima possibile quanto andato distrutto.
Si apre, invece, una grande opportunità, data dalla possibilità di ripensare questi spazi pubblici e privati, in cui la componente vegetale costituisce un elemento imprescindibile per la qualità della vita urbana e per le funzioni ambientali e paesaggistiche che è in grado di assicurare.
Se ci pensiamo bene, nelle nostre città le aree verdi di qualunque natura sono il frutto più che altro di interventi spontanei, per lo più improvvisati, che negli ultimi decenni hanno accompagnato il boom edilizio e l’intensa urbanizzazione, lasciando al verde il compito di “abbellire” in qualche modo gli spazi residuali non edificabili.
Troviamo, dunque, specie botaniche scelte casualmente o secondo le disponibilità del momento, piante sviluppatesi con dimensioni o forme abnormi rispetto al sito di impianto, alberature massacrate da una sequenza impressionante di tagli di potatura, giardini che sono diventati poco accoglienti e dunque non fruibili dal pubblico.
Dinanzi agli amministratori, ai tecnici e ai cittadini si pone il tema, nella maggior parte dei casi del tutto inesplorato, rappresentato dalla pianificazione del verde che consenta, finalmente, di poter disegnare non solo come saranno i giardini e i parchi delle città di domani, ma soprattutto di sottoporre a cure ed interventi organizzati e prefissati tutto il patrimonio arboreo pubblico e privato, giacché cadono non solo gli alberi del Comune ma anche quelli cresciuti nei giardini di villette e condomini!

Chi scrive è dell’idea di prediligere il requisito della sicurezza delle alberature cittadine rispetto ad ogni altra considerazione: il che può comportare, però, la sostituzione delle piante arboree prima che entrino nella fase di senescenza e prima che gli interventi di potatura diventino sconsigliabili secondo le buone pratiche dell’arboricoltura. Da ciò discende che una razionale gestione e rotazione del verde pubblico, può assicurare idonee prestazioni estetiche ed ambientali: nel primo caso perché si possono mettere a dimora piante con standard qualitativi elevati rinnovando le alberate più datate, magari rovinate dalle potature o traumi di vario tipo; in secondo luogo perché è ormai appurato che l’efficienza fotosintetica e di conseguenza la capacità di fissazione della CO2 diminuiscono più che proporzionalmente in piante senescenti.
Naturalmente debbono essere sempre salvaguardate tutte le situazioni in cui piante singole o a gruppi, nei contesti più vari, rappresentino particolari valori monumentali, naturalistici o costituiscano di per sé un valore storico, testimoniale o identitario: in questi selezionati casi è giustificabile ogni sforzo per mantenere in essere quegli alberi con indubbie qualità che deve essere cura di tutti salvaguardare, a costo di erigergli intorno un cordone di sicurezza … quasi con un approccio museale!

Se per ogni cantiere di abbattimento di alberi posti in città, capita di trovare un tale disposto a incatenarvisi, è certo che l’opinione pubblica pretende ogni sorta di rassicurazione e certificazione sulla stabilità, anche per quelle stesse piante vecchie e malconce che si è scelto di non eliminare (magari per non incorrere in furiose polemiche).
È arduo, tra l’altro, che i non addetti ai lavori possano intuire quanto le prestazioni statiche di un albero siano difficilmente ingabbiabili, col passare del tempo, in parametri e modelli previsionali certi: detto in altri termini molte delle situazioni non sono sempre certificabili.
Ecco che una giusta via di mediazione tra tutte le aspettative (richiesta di natura in senso lato, qualità del verde, sicurezza, economicità di gestione) potrebbe essere rappresentata da una pianificazione in cui la resilienza dei parchi e viali cittadini è perseguita non solo tramite la selezione ragionata di parametri classici (ad es. adattabilità delle specie vegetali alle sollecitazioni dell’ambiente urbano, esclusione di piante allergeniche, sviluppo e portamento consoni, ecc.) ma anche dall’aver definito a priori le modalità e i tempi degli interventi di manutenzione, il monitoraggio del patrocinio arboreo, la scalarità degli interventi di sostituzione e riqualificazione del verde.

Occorre, soprattutto, un’attenta e puntuale riprogettazione degli spazi (e, a questo proposito faccio mie le lezioni del matematico Nikos A. Salìngaros, a proposito della necessità di città e discipline urbanistiche nel senso più ampio del termine, che siano prima di tutto resilienti) in cui l’attenzione per il contesto e la complessità di sistemi tra loro collegati (per fare un esempio:  l’abitato con le relative reti tecnologiche, le vie di comunicazione e gli spazi verdi, il tutto intimamente interconnesso), l’osservazione dei modelli in natura e più in generale gli insegnamenti che vengono dalla biologia divengono un approccio, certamente complesso e faticoso da perseguire, ma senz’altro utile a rendere le città resilienti: contro gli effetti delle crisi economiche, sociali e, nel nostro caso, contro le avversità naturali.
Questa dovrebbe essere la cornice generale dentro cui far confluire tutti quegli argomenti che oggi iniziano ad animare la discussione pubblica: le scelte strategiche, la ricerca di finanziamenti, la partecipazione della comunità, la sinergia pubblico-privato e, più in generale, la “visione della città”.

Lorenzo Vagaggini, Dottore Forestale