Ailanto: invasività e servizi ecosistemici, possono convivere?

Una pianta fortemente competitiva può essere difficile da gestire in ambiente urbano. Nonostante questo può avere anche dei ruoli positivi.
Questo articolo è nato dall’osservazione di un luogo in cui una pianta che è considerata l’infestante per eccellenza, può fornire dei servizi ecosistemici. So già che quello che scritto probabilmente susciterà qualche perplessità e anche opinioni molto divergenti. La speranza è che possa nascere l’opportunità per una riflessione non preconcettuale, come ho cercato di fare analizzando il caso specifico. Chi può dire, infatti, che una cosa, un pensiero, un’affermazione, una teoria sia giusta/sbagliata se non si esplora la natura e non si verifica sperimentalmente la validità e la concretezza di certe opinioni a prescindere da qualsiasi convinzione preconcetta esistente?

C’è da dire che, a livello globale, l’invasione di specie esotiche è in rapido aumento sia per il numero di specie introdotte, sia per la velocità di invasione, con conseguente degrado degli ecosistemi su larga scala. Una delle specie di piante invasive più diffuse in Europa e Nord America, l’Ailanthus altissima (Mill.) Swingle) è stato introdotto intenzionalmente nel 18° secolo, quando la pianta fu importata dalla Cina per alimentare il lepidottero Samia cynthia, che avrebbe dovuto sostituire il baco da seta Bombyx mori, minacciato da varie epidemie. Da allora si è diffuso ed è ormai stabilizzato praticamente in tutto il mondo, tanto che è considerata una delle peggiori specie invasive vegetali in Europa ed è anche indicato come invasiva in Nord America e in molti altri paesi.
Le specie invasive causano generalmente il degrado dei servizi ecosistemici, hanno un notevole impatto sull'ambiente, minacciano la biodiversità e riducono l'abbondanza di specie in generale. D'altro canto, però, alcune di esse anche possono fornire servizi utili al benessere umano.

Sicuramente fra le specie arboree note per la loro invasività troviamo la Robinia pseudoacacia e, come detto, l’Ailanthus altissima. Mentre per la robinia (non acacia, attenzione! Le acacie sono le mimose!) è conosciuto il suo impiego nel consolidamento delle scarpate, il suo ottimo legno da carbone e da costruzione, e il suo utilizzo anche per la divisione dei campi e lungo le rogge e le marcite nel nord Italia, meno note sono, invece, le funzioni dell’ailanto.
Di questa specie si conoscono, spesso a ragione, solo gli effetti negativi sull'ambiente. A. altissima è, infatti, una "classica" specie infestante. Una pianta adulta “femmina” (l’ailanto è specie dioica, cioè con fiori femminili e maschili portati su piante diverse) produce una media di oltre 300.000 semi all'anno. I semi alati si disperdono facilmente, spesso sfruttando l'effetto galleria del vento delle strade, ma la pianta si diffonde anche per mezzo di polloni alquanto aggressivi. L'apparato radicale è in grado di penetrare nelle crepe dei marciapiedi e nelle fondamenta degli edifici e la specie può affermarsi anche in ambiente poverissimi. A questo si aggiunge un’elevatissima tolleranza alla siccità e all'inquinamento atmosferico.

L'ailanto cresce rapidamente, fino a oltre 2 metri l’anno, e questo lo rende estremamente competitivo nei riguardi delle specie autoctone che vengono rapidamente dominate. Inoltre, le sue foglie sono tossiche per più di 40 specie autoctone, ed è sgradevole (e talvolta tossica) per gli erbivori. Contiene, infatti, sostanze tossiche e il contatto con le foglie e i fiori può provocare irritazioni cutanee e dermatiti allergiche.
I suoi polloni, come detto, “soffocano” le piantine di specie autoctone riducendo notevolmente la biodiversità locale. Grazie a queste caratteristiche e l’assenza di nemici naturali, riesce facilmente a invadere gli spazi urbani, blocca la luce del sole, le viste, e provoca danni alle pavimentazioni e alle fondamenta degli edifici, può interferire con le tubazioni e con il sistema fognario. In città può virtualmente crescere dappertutto.
Questi sono solo alcune delle problematiche legate alla invasività della specie che, giova ricordarlo, sono enormi.

C'è un ma: non dobbiamo negare il ruolo ecologico che anche questa specie può esercitare; per esempio, impedisce l'erosione e fornisce ombra e posatoi per uccelli nidificanti. Come altre specie pioniere, cresce in ambienti in cui altre specie di piante non riescono.
Secondo la medicina tradizionale asiatica, l’ailanto ha un valore medicinale come rimedio per l'asma, le verminosi, la diarrea e i dolori mestruali. In Africa, è usato come trattamento per problemi cardiaci, convulsioni e disturbi mestruali. In Francia, le foglie sono utilizzate al posto delle foglie di gelso per l'alimentazione dei lepidotteri del baco da seta. Il suo legno può essere utilizzato in artigianato e nella lavorazione del legno. La tossina prodotta dalle foglie, dalla corteccia e dal legno è attualmente in fase di studio come diserbante naturale. Di recente negli estratti dalla corteccia è stata, infatti, isolata una sostanza, l'ailantone, con elevata attività fitotossica ed erbicida verso infestanti mono e dicotiledoni. Estratti acquosi hanno attività aficida, insetticida e repellente per nottuidi (www.funghiitaliani.it).

Per quanto riguarda gli aspetti paesaggistici giova ricordare che, oggi, il concetto di pianta ornamentale (seppur questa parola, che deriva da ornamento, cioè dall’abbellimento ottenuto con elementi decorativi, è molto riduttiva rispetto alle funzioni degli alberi in città), è molto più ampio rispetto al passato quando (ma, spesso, lo si fa tuttora) si considerava 'pianta ornamentale' qualsiasi pianta in grado di apportare un contributo estetico all'ambiente nel quale si trova. Nelle condizioni attuali delle nostre città, e tenuto conto però delle numerose funzioni che il verde, sia pubblico che privato, è chiamato a svolgere, definirei 'pianta ornamentale' “qualunque pianta in grado di soddisfare esigenze estetiche, culturali, sanitarie, igieniche, ricreative, sociali e legislative di un determinato ambiente”.

Questa definizione è, come si capisce, molto più ampia e, tornando all’osservazione che ha stimolato la scrittura di questa riflessione, quando altre specie non potrebbero essere altrettanto efficaci nel fornire determinati servizi ecosistemici, la gestione oculata di queste “infestanti”, (ad esempio selezionando gli individui maschi nel dioico ailanto, anche se, purtroppo, esistono anche, seppur rari, individui monoici) spontaneamente diffuse, potrebbe essere l’extrema ratio da contrapporre alla totale mancanza di piante.

Questo è ciò che mi è venuto in mente in un’assolata e rovente domenica di luglio quando, passando in un piccolo paese del sud della Toscana, ho visto un piccolo bar prefabbricato con molti tavolini dove la gente consumava un gelato o una bibita e alcuni giocavano a carte, tutti sotto alle fronde di un grande ailanto che, con la sua ombra, mitiga la calura estiva, creando un microclima gradevole, riducendo l’inquinamento e abbattendo il particolato e, infine, fattore non secondario, contribuendo alla creazione di uno spazio con funzioni sociali elevate in un piccolo paese lontano dalla città. Senza quella “grande infestante” cosa resterebbe? Un piazzale assolato e polveroso, inutilizzato e triste. Questo è anche testimoniato dal fatto che un’altra pianta è stata lasciata crescere accanto per creare ancora più ombra.

Questa è la domanda che mi pongo e che pongo a chi ha avuto la pazienza di leggere questa riflessione. Cosa fare in queste situazioni? Gestire l’ailanto come fosse la peggior infestante, e quindi cercare di eradicarlo, o puntare a sfruttare i lati positivi legati alla sua presenza in quello specifico luogo? È chiaro che ci fosse stato una farnia, un cerro, una roverella, un tiglio o un platano sarebbe stato molto meglio….ma sarebbero stati altrettanto vigorosi?

In tutta sincerità io non ho una risposta. È certo che nello specifico gli aspetti positivi prevalgono, ma siamo in una zona paesaggisticamente molto bella e la proliferazione di ailanti che si stanno diffondendo a macchia d’olio e quella pianta carica di semi non è il massimo…..

In conclusione è bene ribadire che valutare gli effetti positivi e negativi delle specie esotiche invasive sugli ecosistemi è una questione molto complessa e i modelli possono aiutare a valutare quali siano gli effetti prevalenti. I modelli teorici suggeriscono che ci potrebbero essere molteplici relazioni tra la diversità degli ecosistemi e la loro stabilità. Per stimare i costi delle specie esotiche invasive è necessario identificare e quantificare l'intera gamma di servizi ecosistemici che vengono forniti e, in secondo luogo, valutare la loro riduzione conseguentemente all’invasione.

Solo in questo modo potremmo avere delle risposte certe che, comunque, è bene sottolineare, devono essere valutate caso per caso ed è necessario confrontarsi serenamente, mentre, soprattutto con l’avvento dei social network, il dibattito è spesso contraddistinto dal “muro contro muro”, dall’offesa gratuita, dalla denigrazione. Invece gli strumenti della comunicazione sociale dovrebbero essere come un pubblico arengo, dove le persone possono discutere, confrontarsi, interpellarsi e rispondersi. L’esposizione e il confronto aperto delle diverse opinioni possono avere profondi riflessi anche nella gestione del verde urbano e ne possono migliorare la qualità e affrettarne lo sviluppo.