In un Paese lento a recepire le novità del settore, l'innovazione è spesso utopia. I problemi territoriali e quelli legati a nuove malattie
È difficile individuare in modo preciso le tendenze che interessano l’arboricoltura italiana. Nel considerare un paese come il nostro, dove esiste una grande variabilità climatica da nord a sud, da est a ovest, fra urbano e rurale, da subtropicale a temperato e dove i decisori politici, i parametri economici e ambientali possono essere diversi nelle diverse regioni, non è sempre facile fare considerazioni generalizzabili.
La perdita di aree verdi naturali e la progressiva urbanizzazione è certamente cosa di grande preoccupazione nella maggior parte del paese, ma è più grave in certe aree rispetto ad altre. Il carattere delle periferie esistenti e future è stato modificato o minacciato dalla rapida diminuzione delle aree agricole e dai più sottili cambiamenti provocati dalla perdita della copertura arborea attraverso gli interventi di urbanizzazione. Basti pensare che, nel nostro paese, la superficie impermeabilizzata era già a metà anni 2000 pari al 7.6% (circa 23.500 km2, un’estensione equivalente a quella di Puglia e Molise messe insieme, pari al 7,6% del territorio nazionale e a 415 m2/abitante) e che Milano e la Brianza hanno la percentuale più elevata di suolo edificato e/o sigillato: oltre 42%. Questa erosione di aree soprattutto periurbane mette a rischio i benefici ecosistemici che gli alberi forniscono e minaccia la sostenibilità sia economica sia ambientale delle città.
Nei nuovi progetti di sviluppo urbano, spesso non c'è posto per gli alberi e la limitatezza delle aree non pavimentate e lo scarso volume di suolo a disposizione delle strade spesso portano al fallimento dei nuovi impianti e a uno status di perenne sofferenza di quelli presenti. Stantibus rebus c'è quindi poco futuro per gli alberi e per i benefici che potrebbero fornire alle generazioni future.
La nostra storia recente di temperature estive da record e di periodi prolungati di siccità, non solo estiva, in molte parti del nostro Paese, con una vera e propria alterazione nel distribuzione, intensità e frequenza delle precipitazioni e con una preoccupante intensificazione degli eventi estremi in tutte le regioni del paese, pone all’attenzione del pubblico il tema del cambiamento climatico anche perché i suoi impatti sulla arboricoltura si fanno già sentire.
In conseguenza degli eventi estremi (ma non solo a causa di questi) gli alberi sono stati spezzati, sradicati o hanno subito rotture di grosse banche che hanno provocato significativi danni alla proprietà e, purtroppo, nei casi peggiori, dei morti. Agli arboricoltori e a coloro che si occupano di ricerca in questo settore viene chiesto di determinare perché si sono verificati questi eventi e se l'ispezione degli alberi avrebbe potuto prevenirli.
Questo accende i riflettori sulla formazione di coloro che operano ai diversi livelli e sui protocolli che vengono utilizzati durante le ispezioni degli alberi, poiché la richiesta di un livello più elevato di professionalità e di un imparziale e indipendente giudizio sono più grandi che mai.
Le immagini di alberi caduti su case e veicoli o, peggio ancora, che hanno causato lesioni a persone, sono drammatiche e possono portare a una reazione istintiva e alla rimozione di un gran numero di alberi. E spesso a nulla vale spiegare che l'influenza moderatrice degli alberi sulla velocità del vento durante i temporali potrebbe aver impedito danni o lesioni anche maggiori. Oltretutto una spiegazione oggettiva di quello che è successo e di ciò che dovrebbe essere fatto per evitare il ripetersi di certi accadimenti raramente ottiene esposizione mediatica. La gran parte degli sradicamenti, delle rotture di alberi o di parti di essi può essere fatta risalire a una popolazione ormai vetusta, composta da specie adesso non più adatte e da alberi piantati anche più di un secolo fa che, se anche forniscono ancora benefici, lo fanno in misura molto ridotta perché sottoposti a condizioni di stress spesso non compatibili con la loro vitalità e che possono contribuire al loro cedimento parziale o totale.
Mentre all’estero ci sono stati adeguati studi sulle tecniche d’impianto e sono state proposte alcune strategie di sostituzione delle vecchie alberature per avere una copertura arborea di età mista e una maggiore diversità delle specie, pochi sono stati i progressi in questo senso nel nostro Paese, dove limitata è la ricerca, peraltro sottofinanziata, e dove le discussioni sul rinnovamento delle alberate prendono spesso risvolti politici ed estremistici che niente hanno a che vedere con una pragmatica e indipendente analisi tecnica del problema.
Pur se il valore di funzioni e servizi che vengono forniti dagli alberi urbani rimane ancora da calcolare con precisione ed è lungi dall’essere completamente accettato dal punto di vista sia legale che economico, alcuni progressi sono stati compiuti. Ad esempio le autorità sanitarie stanno cominciando a riconoscere il ruolo della vegetazione urbana, soprattutto arborea, nel ridurre l'effetto isola di calore urbana (UHI) e nella prevenzione delle malattie legate al caldo, in particolare durante le ondate di calore.
Le ondate di calore sono fra i più grandi assassini di persone (soprattutto anziani e con problemi respiratori, si pensi alle decine di migliaia di morti causati dall’ondata di calore del 2003 in Europa) e le previsioni fatte riguardo agli scenari di cambiamento climatico suggeriscono che il numero di decessi legati al calore, i ricoveri e le emergenze aumenterà notevolmente, così come i costi per la società.
Di conseguenza, in virtù di questo imperativo economico, le autorità sanitarie, in altri paesi, stanno studiando modi per ridurre i costi e stanno promuovendo programmi di piantagioni in ambiente urbano come una possibile soluzione. Allo stesso tempo, però, è necessario che le nuove urbanizzazioni tengano conto di parametri ambientali basati sulle condizioni future e non si limitino a quelli minimi previsti a livello nazionale per i nuovi insediamenti.
In un momento di rapidi e, in alcuni ambienti politici, controversi cambiamenti, forse non è sorprendente che emerga un paradosso. Da una parte la spinta per l’urbanizzazione di aree (e quindi verso la rimozione di alberi), per allargare strade, per nuove edificazioni e per la creazione di infrastrutture grigie, soprattutto nei centri urbani, cresce rapidamente. Dall'altra, i pianificatori, i progettisti e le amministrazioni più “illuminati” stanno riconoscendo la necessità di una maggiore copertura arborea per migliorare il comfort urbano, ridurre i problemi sanitari legati alla cattiva qualità dell’aria in nelle città, limitare gli effetti delle ondate di calore e per incoraggiare stili di vita più sani.
Questi sono i due grandi “motori economici” che interessano l’arboricoltura al momento; in realtà non è possibile prevedere cosa accadrà. Questo può essere fatto solo col senno di poi. Possiamo comunque dire che, se vogliamo fruire di tutti i potenziali benefici della vegetazione urbana, la copertura vegetale nelle aree urbane deve essere superiore al 30%.
La maggior parte delle città italiane hanno una copertura inferiore al 20% (ma spesso molto meno) e le autorità governative locali dovrebbero stabilire obiettivi ambiziosi di aumento della copertura arborea che potrebbero portare a un consistente incremento della densità del verde urbano nel corso di un periodo di programmazione previsto in 20-30 anni.
Questa programmazione è necessaria non solo per il rinnovamento previsto, ma anche per la l’aumentata virulenza di alcune malattie endemiche e per l’arrivo di parassiti e patogeni da altri continenti che, purtroppo, hanno trovato terreno fertile nel nostro Paese. La posizione geografica ha fatto sì che l'Italia sia stata praticamente invasa da molti dei parassiti provenienti da altre parti del mondo (siamo il paese con il record di nuovi parassiti introdotti, oltre 700 negli ultimi 40 anni), che nelle zone di provenienza, sono controllati dai nemici naturali o in cui le piante autoctone si sono coevolute per la resistenza a certi parassiti (vedi es. del Fraxinus mandshurica resistente allo scarabeo smeraldino, Agriles planipennis che ha praticamente cancellato i frassini americani negli stati centrali). A ciò si aggiunge il fatto che i cambiamenti climatici stanno alterando i cicli vitali di certi parassiti e il periodo vegetativo delle specie rendendo i primi più aggressivi (tipico è il caso del Dendroctonus ponderosae in British Columbia) e le seconde più suscettibili.
È, infatti, molto probabile che l'aumento delle temperature e il diverso regime pluviometrico contribuiscano alla diffusione e all’aumentata virulenza dei parassiti nel breve periodo, mentre le piante impiegheranno decenni se non secoli per “adattarsi” e nella fase di latenza esse risulteranno molto più suscettibili complicando non poco la gestione del patrimonio arboreo. Purtroppo tutto ciò sta accadendo in un momento in cui ci sono stati gravi e incomprensibili tagli alla spesa pubblica per la scienza, l'ambiente e il cambiamento climatico.
Gli attacchi fungini e di insetti su specie arboree autoctone ed esotiche hanno causato notevoli perdite di alberi, sollevando preoccupazioni per il ruolo futuro di alcune specie nei nostri paesaggi urbani e regionali. Nel nostro Paese siamo inoltre molto lenti nel prendere decisioni e non siamo certo i primi ad adottare le nuove soluzioni e le nuove tecnologie e non vi è dubbio che la tecnologia giocherà un ruolo sempre più importante nella gestione degli alberi urbani. Ad esempio gli apparati radicali potranno essere mappati in modo non distruttivo con georadar più accurati (GPR) e gli alberi potranno essere localizzati e identificati utilizzando Apps per gli smartphones in grado di rendere il cittadino (dopo un breve periodo di “training”) interattivo col il gestore pubblico nella segnalazione di eventuali problematiche.
Queste tecnologie sono ancora relativamente nuove e ci si può aspettare che il loro utilizzo e la loro precisione miglioreranno e, allo stesso tempo, il loro costo diminuirà. Altre tecnologie che utilizzano la fluorescenza consentono la determinazione immediata dell'attività fotosintetica e possono essere usate per stimare la vitalità dell’albero. Presto questi approcci permetteranno la valutazione immediata dello stato degli alberi, le proprietà del suolo e l'individuazione di organismi parassiti agenti di malattie. L'uso corretto di tali tecnologie richiederà, però, un’adeguata preparazione e professionalità da parte di chi opera in arboricoltura.
I nostri alberi urbani hanno dimostrato, dimostrano e dimostreranno ancor più in un futuro che si presenta a tinte fosche, di essere grandi beni sociali. Mentre molti esemplari sono stati persi nel corso degli ultimi anni sia a causa di attacchi parassitari (una percentuale talvolta elevatissima per quanto riguardo, ad esempio, le palme o gli olmi), sia per eventi meteorici, altri sono stati salvati e conservati e dobbiamo far sì che possano esprimere al meglio le loro potenzialità. Al contempo dobbiamo pensare non solo al rinnovo di quelli esemplari ormai giunti alla fine del ciclo vegetativo o che comportino rischi per il cittadini, ma anche all’impianto, laddove possibile, di nuovi alberi sia con investimenti pubblici, sia anche attraverso le azioni dei cittadini locali che hanno compreso il valore immenso della vegetazione per il presente e per le generazioni future, come avviene in molte città estere (l’esempio di Portland con l’associazione “Friends of Trees”
http://www.friendsoftrees.org/ è forse il migliore).
Essere sulla cuspide di un possibile cambiamento significativo offre opportunità sia per la foresta urbana sia per coloro che la devono gestire per dare un contributo significativo alla sostenibilità e alla vivibilità delle città per decenni e nei secoli a venire. Carpe diem!