Bosco misto di latifoglie: consorzio vegetale di alto valore

Frassini, carpini, castagni e querce sono i componenti maggiori di di questa fitocenosi. Le conseguenze dovute ai tagli periodici
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Abbiamo esaminato, nelle scorse puntate, i principali tipi di vegetazione del Piano basale, dando forse un’immagine un po’ schematica delle varie fitocenosi; mai, però, inscatolare entro schemi rigidi una realtà complessa e, in varia misura, modificata dall’uomo per secoli, come dimostra la presenza su vastissime superfici di un consorzio vegetale diffusissimo nell’orizzonte superiore di questo Piano: il bosco misto di caducifoglie termomesofile.
 
Abbiamo già accennato ad alcune componenti di questa fitocenosi: l’orniello (Fraxinus ornus), il carpino nero (Ostrya carpinifolia), la roverella (Quercus pubescens), il castagno (Castanea sativa). Altre componenti sono il maggiociondolo (Laburnum anagyroides), l’acero campestre (Acer campestre), il ciliegio selvatico (Prunus avium), il ciliegio canino (Prunus mahaleb), l’olmo (Ulmus minor), il cerro (Quercus cerris), il bagolaro (Celtis australis) e, sporadicamente, altre specie di latifoglie più frequenti man mano che il bosco sale a quote maggiori, sconfinando nell’orizzonte inferiore del Piano montano, cui presto accenneremo.

I climax verso cui questo consorzio tende è in basso la lecceta, alle quote maggiori il bosco di rovere (Quercus petraea): in contrasto con tanta ricchezza di componenti, due soli dominatori o, se preferite, sovrani decaduti. È questa la conseguenza dei tagli periodici ripetuti per secoli: le specie ottime o buone pollonifere tendono ad espandersi a scapito delle altre: le numerose componenti del manto arboreo, alcune vigorosamente, altre assai meno, riescono a risvegliare getti basali dalle ceppaie dopo i tagli periodici finalizzati al reperimento di legname: è un dato di fatto che questi boschi sono in larghissima maggioranza boschi cedui.
 
Nella buona stagione il colore complessivo del manto arboreo presenta poche variazioni: si va da un verde tenero a tonalità più scure, ravvivate qua e là dagli zampilli dorati delle infiorescenze dei maggiociondoli; in autunno, invece, compaiono contrasti cromatici ben più accentuati: si va dal giallo oro delle foglie dell’acero campestre a toni aranciati, rossicci o brunastri di altre specie: un reale ornamento delle pendici montane, destinato a durare finché il fogliame non sia finito tutto al suolo.
 
Sotto il profilo ecologico questi boschi non presentano rilevanti problemi; la presenza di più specie è anche una garanzia da un punto di vista fitosanitario: se gli olmi vengono uccisi dalla grafiosi altri alberi, essendone immuni, prendono il loro posto. Due aspetti problematici sono legati alla caduta di piogge acide e al protrarsi di condizioni siccitose sul finire dell’estate; ovviamente, in questi casi, diminuisce la fotosintesi e la vitalità degli esemplari ne soffre; di solito, però, si tratta di fluttuazioni che non dovrebbero incidere sullo sviluppo vegetativo della buona stagione successiva.

Dato che i cedui, lo abbiamo già sottolineato, consolidano i pendii in maniera tutt’altro che ottimale, sarebbe bene che, nell’àmbito di una pianificazione lungimirante, si operasse per ottenere, in tempi medio-lunghi, una conversione da ceduo a fustaia secondo le regole della selvicoltura naturalistica (sempre che non permangano esigenze di sfruttamento della risorsa legno).