L'origine delle paludi

Le zone umide planiziali hanno una storia da raccontare e nascondo particolarità naturali di grande valore
Saliamo su una “macchina del tempo” (così cara agli scrittori di fantascienza) e torniamo indietro di 18.000 anni. È il momento dell‘ultimo massimo dell’ultima glaciazione, quella di Würm: il Mediterraneo si trova ad un livello di ben 115 metri più basso dell’attuale: latita la materia prima, l’acqua, bloccata sotto forma di ghiaccio a latitudini elevate e sulle catene montuose dei due emisferi. L’Italia occupa una superficie di circa 400.000 km quadrati; quasi due terzi dell’Adriatico sono terre emerse, il Po accoglie molti affluenti dell’ex Jugoslavia e ha la sua foce a sud di Ancona, l’Elba è parte integrante della Toscana.
Inizia l’aumento della temperatura, in Italia poco alla volta il ghiaccio fonde, tranne che sulle alte vette della catena alpina e sui punti più elevati degli Appennini: un’enorme quantità di acqua scende fino alle zone planiziali; circa 30.000 km quadrati (pari a un decimo dell’attuale territorio nazionale) ospitano zone umide, in prevalenza paludi e pantani.

Origine delle paludi. Torniamo ai giorni nostri: tra aumento delle temperature e bonifiche, le zone umide planiziali sono quasi scomparse; quelle che rimangono, ridotte a ben poca cosa, ospitano una flora specializzata, in alcuni casi costituita da specie microterme e orofile (amanti delle basse temperature e di quote elevate), tra cui anche piante carnivore (che meritano un capitolo a parte, e lo avranno). Indubbiamente un silenzioso messaggio da un passato remotissimo che può essere sintetizzato con “noi siamo sovrani decaduti”.
Dove troviamo, oggi, queste zone umide di bassa quota? La penisola italiana è costituita in massima parte da suoli penetrabili dalle acque piovane, quindi inidonei ad ospitare paludi. Il primo posto, come interesse scientifico, spetta senza dubbio alla Toscana: le zone umide di Sibolla, Biéntina e Massaciùccoli ospitano. oltre a numerose ciperacee, iuncacee e tifacee, anche una piccola pianta carnivora, la droséra o rosòlida (Droséra rotundifolia).

Testimonianza antica. Descriveremo in seguito i raffinati adattamenti che permettono alla drosera di catturare anche insetti forti volatori come le libellule, di digerirne le cellule dei tessuti molli e di integrare così la fotosintesi clorofilliana; ora limitiamoci a ricordare che questa specie si spinge fino all’Islanda, alla Scandinavia, alla Siberia: supera il circolo polare artico spingendosi oltre 70° di latitudine nord, mentre sulle Alpi la troviamo ancora a 2000 metri di quota; rinvenirla sulle rive del lago di Massaciuccoli, al livello del mare e ad un chilometro circa dai bagnati delle spiagge versiliesi, è davvero qualcosa di straordinario. Certo un branco di renne colpirebbe di più ma sta alla sensibilità dell’amante della natura rendersi conto che la presenza di queste piantine nelle località citate è la testimonianza indiretta di un’antica espansione dei ghiacci sul nostro pianeta, seguita da un’avventurosa migrazione, verso sud e verso quote minori, lungo immense paludi, da tempo scomparse. Resistono tenacemente nelle località toscane, queste piantine, rifiutando pervicacemente di prendere atto che il clima è cambiato, che i manti vegetali dominanti sono ben diversi da quello che, in tempi remoti, era loro consono, che meritano ormai solo l’appellativo, carico di gloria scientifica, di “relitti glaciali”.