Il leccio contro il dissesto delle aree marittime

Tanti i pregi di una lecceta, tra cui quello di proteggere il terreno dai rischi idrogeologici
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Abbiamo affermato, la volta scorsa (clicca QUI per leggere), che il bosco di leccio è quello più prezioso, sotto il profilo ecologico, tra tutti i consorzi arborei presenti sulle coste e nell’immediato entroterra; paradossalmente è proprio il tipo di bosco che occupa la minore superficie complessiva. Vediamo sinteticamente i pregi di questa fitocenosi.

1)    La lecceta genera un microambiente fresco e privo di arbusti, risultando meno infiammabile rispetto ad ogni altro tipo di bosco termofilo. Con tanti incendi colposi e dolosi che travagliano il nostro paese, questo è un pregio di non poco conto.

2)    La lecceta svolge un’efficiente opera di consolidamento dei pendii grazie al possesso, da parte di alberi in buone condizioni di salute, di apparati radicali sviluppati, potenti e profondi.

3)    La lecceta genera una fitta barriera di fronde sempreverdi, idonea, nei limiti del possibile, a graduare l’impatto sul terreno delle acque piovane.

4)    La lecceta produce un’ingente quantità di lettiera che i microrganismi del suolo (batteri e funghi microscopici) trasformano in ottimo humus, fertilizzante ideale a lunga scadenza, idoneo pure ad impregnarsi di grandi quantità di acque piovane e a smaltirle poi gradualmente.

5)    Sotto i lecci il pH è prossimo alla neutralità e questa prerogativa, insieme al possesso di un fogliame coriaceo e resistente al disseccamento (il leccio è una “sclerofilla”, non una “latifoglia”), fornisce garanzie di resistenza, sempre nei limiti del possibile, alla caduta di piogge acide.

6)    Il leccio è un albero longevo: teoricamente può vivere fino a 1000 anni.

Contro le alluvioni. Insomma nessun albero possiede “la bacchetta magica”, il leccio è quello che, in aree marittime e delle prime colline, se la cava meglio, a vantaggio di se stesso e dell’uomo: una maggiore diffusione delle leccete sul mare e sui primi contrafforti dell’entroterra si tradurrebbe in una difesa più efficiente da dissesti e alluvioni, oltre che in un motivo di valido pregio estetico. Sia chiaro che difesa più efficiente non vuol dire difesa efficace, con i massimi pluviometrici che hanno preso ad affliggerci, specie in tempi recenti; cerchiamo, però, di tendere al meglio possibile.

I negatori delle nostre tesi obiettano che il concetto di climax è teorico e comunque  un climax richiederebbe millenni per realizzarsi: su una falesia a picco sul mare è così ma in condizioni meno esiziali i tempi si riducono, specie nel caso di aree agricole abbandonate, frequenti in Italia, in cui si siano effettuati spietramenti e, per un certo tempo, concimazioni. Non si può pensare di mettere a dimora direttamente piantine di leccio: pur con gli opportuni accorgimenti (colpo di zappa invece di buchette, concimi a cessione graduale, polimeri idroretentori per trattenere al suolo l’acqua di rugiada -ne riparleremo-), la crescita sarebbe molto lenta. Meglio, in questi casi, piantare esemplari di arbusti mediterranei (soprattutto corbezzoli) e poi, in un secondo tempo, migliorate le condizioni microambientali, mettere a dimora lecci giovanissimi sotto i corbezzoli: il dinamismo vegetazionale farà il resto. Tempi medio-lunghi quindi; d’altronde chi vuole tutto e subito se adotta scelte differenti rimarrà deluso: il tempo non rispetta ciò che si fa senza rispettarlo!