La vita severa delle alofite costiere

Come sopravvivere a terreni salati, in pieno sole e in ambienti siccitosi
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Con il professor Enrico Martini, passeremo in rassegna i vari orizzonti. Iniziamo con quello delle alofite costiere. 

Tanti fattori limitanti.  Si dicono alofìte le piante che vivono sui terreni salati, si tratti di suoli sabbiosi o di fessure di rocce prossime al mare, ambienti tra i più severi sulla Terra per la vita vegetale. Quali i fattori limitanti? In primo luogo l’elevato contenuto di sali nel substrato, il “bombardamento” dei raggi solari, la siccitosità e le alte temperature estive, l’azione disseccante di un vento spesso impietoso, la scarsità di humus. L’abbondanza di sali, in particolare, impone agli “inquilini” il possesso, nelle cellule delle radici, di liquidi incredibilmente concentrati, ricchissimi di ioni ad elevato valore osmotico (in caso contrario il substrato sottrarrebbe acqua alle cellule, disidratandole e conducendo alla morte il vegetale).

Radici sotto pressione (osmotica). Nei peli radicali delle alofite sono stati riscontrati valori di pressione osmotica anche di 100 atmosfere. Difficile rendersi conto di quel che significhi un dato del genere; tenterò di farlo con un grossolano esempio, puramente teorico: immaginiamo di riuscire a gonfiare la gomma posteriore di un trattore al punto che il manometro applicato alla valvola segni il valore di 100 atmosfere; immaginiamo di poter togliere di colpo la valvola che tiene compressa l’aria; l’aria uscirà con violenza inaudita: è come se l’atmosfera circostante aspirasse con un risucchio mostruoso quest’aria: ecco, è questa l’entità del “risucchio” che un pelo radicale di alofita esercita sul terreno che lo circonda.

Caratteristiche di adattamento. L’apparato radicale è gigantesco, rispetto alla modestia della parte subaerea e i peli radicali, in molti casi, compaiono lungo tutta la lunghezza della porzione ipogea e non soltanto in zona subapicale. Immaginando di disporre lungo un segmento rettilineo questo apparato (peli radicali compresi), si raggiungerebbero valori di molti chilometri. Non basta, però, riuscire ad approvvigionarsi di acqua: occorre pure essere in grado di tesaurizzarla. Le alofite, nel loro complesso, dispongono di altri adattamenti ad alta efficienza: una cuticola lipidica (quindi idrorepellente) oltremodo spessa, che delimita tutte le parti epigee, stomi infossati in cripte stomatiche idonee a saturarsi di umidità agendo da “tappo” verso l’interno del vegetale, presenza di peli fittissimi, pure loro idonei a creare un microstrato di aria ferma, satura di umidità, in cui la perdita di acqua per ulteriore traspirazione sia rallentata (le piante sono isoterme con l’ambiente: la pelosità di una stella alpina non è una pelliccia: serve appunto a tesaurizzare l’acqua). Infine la presenza di colori chiari, nei peli come nei petali dei fiori, in particolare il bianco, per riflettere i raggi solari ed evitare il surriscaldamento, e anche la presenza di pigmenti flavonici e antocianici, idonei a variare la lunghezza d’onda dei raggi ultravioletti, riducendone il nefasto “bombardamento”.

Una semplicità da difendere. Le alofite rupestri, umili ornamenti di tante rupi arcigne, a picco sul mare, non se la passano male: devono lottare solo contro l’ambiente; quelle delle sabbie, invece, sono vittime, lungo buona parte delle coste italiane, dell’antropizzazione del territorio, che ha reso molte aree sabbiose squallidamente azoiche. Hanno però un alto valore culturale e, alcune, come il giglio marino (Pancratium maritimum, in foto) pure un’infiorescenza vistosa e bella. Meritano di essere tutelate, per motivi culturali ed etici. Inoltre un giardinetto di alofite offrirebbe spunti didattici accattivanti per il mondo della scuola e per gli escursionisti sensibili: soprattutto di questi tempi dobbiamo investire in amore per la natura.

Foto da Wikipedia