Tutti i meriti del larice

Dall'utilizzo in architettura, alla capacità di creare un sottobosco ricco di humus. I lariceti, pur con diffusione limitata, sono riconosciuti per i suoi numerosi pregi
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Da quanto tempo i pontili di Venezia sono immersi nelle acque dell’Adriatico? Per lo più da mezzo millennio. Come mai non marciscono? Perché sono fatti, quasi tutti, di tronchi di larice, resistentissimi all’usura anche quando sono immersi nell’acqua salata da secoli e secoli. Indubbiamente le conifere, sotto questo profilo, sono miracoli di longevità. Pure post mortem.
 
Siamo abituati, oggi, a chiamare le piante con nome e cognome (nome, quello della specie, cognome, quello del genere cui la specie appartiene). Medesimo sistema per la fauna: Felis catus, il gatto, Felis leo, il leone; anche nel campo degli animali, obbligatori la lingua latina, il corsivo, la maiuscola per l’iniziale del genere, la minuscola per quella della specie, tutte norme decise in congressi internazionali del passato (l’esigenza di sintesi ci impedisce di dare maggiori specificazioni). È sempre stato così? La nomenclatura binomiale fu proposta dal naturalista svedese Linneo nel lontano 1753 e adottata universalmente in seguito. In precedenza le specie venivano indicate con una frase che ne descriveva le caratteristiche salienti: il larice, ad esempio, veniva chiamato “pinus alia cui soli folia decidunt hieme” (“quell’altro pino a cui – e soltanto a lui – cadono le foglie in inverno”). Facile percepire la farraginosità del sistema.
 
È vero: il larice è l’unica conifera caducifoglia della flora europea e il fatto che perda il fogliame ogni anno si traduce in una serie di vantaggi: in autunno il verde chiaro del lariceto diventa una sinfonia di calde tonalità gialle e ocra, donde una bellezza paesaggistica tutta particolare, un vero ornamento delle montagne elevate. Gli aghi, poi, sono teneri, delicati, e permettono la produzione di pregevole humus. E ancora, se i larici vengono fatti crescere distanziati, accettano il pascolo sotto le loro chiome (ben diverso è il caso delle altre conifere, i cui aghi, pressoché indigeribili dalla microflora del terreno, alla fine danno un humus scarsissimo e particolarmente acido). L’areale del larice è limitato alle Alpi e a due piccole aree dei Carpazi; specie microterma e orofila, grazie alla perdita del fogliame può raggiungere le massime quote per un albero: sulle Grandi Alpi sale fino a 2500 metri (rivaleggia in parte con lui il pino cembro): in inverno, l’assenza del fogliame rende nulla l’esigenza di reperire acqua nel suolo (per mesi ghiacciato); è garantita, infine, l’indifferenza alla caduta di neve particolarmente copiosa (le stroncature sono minime, anche per l’elasticità dei rami).
 
Ulteriori meriti del larice: l’adattabilità a vari tipi di substrato, la rusticità e l’eliofilia delle plantule, la capacità di tollerare suoli rupestri, forti venti in quota, ampie escursioni termiche annuali.
Neppure durante le glaciazioni il larice migrò sull’Appennino (non ne sono mai stati rinvenuti pollini fossili in torbiere appenniniche); eppure vi è stato diffuso a piene mani nei rimboschimenti. Nelle vecchie Prescrizioni di massima e di polizia forestale si trovava scritto che il governo del lariceto si deve fare con il taglio raso; non si considerava che, proprio per i pregi sopra elencati, il lariceto è stato diffuso in passato anche a quote non elevate: in questi casi tale tipo di taglio condusse all’eliminazione del lariceto a vantaggio di altri consorzi boschivi, faggeta in primis, o addirittura bosco misto di caducifoglie.
Concludiamo con un ultimo pregio del lariceto (fondamentale per chi scrive): in autunno, nelle giornate luminose, fredde, asciutte, il lariceto ci dona la possibilità di compiere escursioni meravigliose, per le tonalità cromatiche in cui si è immersi, per il silenzio dei passi che scorrono, anche sui sentieri, su un morbido feltro di aghi caduti al suolo, per l’opportunità di godere di un’aria che usa violenza ai polmoni obbligandoli a dilatarsi, per la gioia di dimenticare, per qualche ora, l’aria mefitica delle città.