Abete rosso, dalle Alpi all' Appennino settentrionale

Frutto di rimboschimenti o considerato residuo dell'era glaciale nella dorsale appenninica, il peccio viene visto, non a torto, come albero caratteristico della catena alpina alpina.
1953
L’abete rosso o péccio (Picea excelsa, secondo alcuni, Picea abies subsp. abies, per altri -lasciamo questa disputa ai sistematici-), è una bellissima conifera, a diffusione eurosiberiana, a tronco diritto, negli esemplari più sviluppati alto fino a 65 metri. Specie microterma, mesofila, discretamente xerofila, nel nostro Paese l’abete rosso è diffuso lungo la catena alpina, nelle vallate caratterizzate da un clima continentale. La sua resistenza all’aridità gli consente di superare indenne il periodo invernale in cui il suolo rimane ghiacciato a lungo.

L’abete rosso ha un apparato radicale a prevalente sviluppo orizzontale per cui può rivelarsi sensibile a colpi di vento e trombe d’aria occasionalmente devastanti (come è avvenuto, ad esempio, nell’alta Val di Fiemme il 23 giugno 2014). Poco male, dove non esistano manufatti umani e l’abete sia il culmine di un processo evolutivo: col tempo provvederanno i giovani esemplari delle generazioni successive a colmare i vuoti.
La sporadica presenza dell’abete rosso nell’Appennino settentrionale ha indotto vari studiosi a considerarlo, in questi luoghi, come un relitto glaciale, con esemplari migrati a minori quote e latitudini durante le glaciazioni e poi conservatisi localmente; a giudizio di chi scrive questa affermazione va accolta con il beneficio del dubbio, considerato che numerosissime piantagioni sono state effettuate nei secoli scorsi anche in luoghi nel complesso inidonei per la specie.

Sarebbe opportuno approfondire il discorso a proposito dei rimboschimenti, per carità, senza lanciare anatemi (la maggior parte è stata effettuata quando l’ecologia “muoveva i primi passi”). Si consideri quanto è stato scritto in un testo che, per quei tempi, ha fatto epoca. “Le foreste di peccio sono certo l’orgoglio delle nostre montagne ... Fittissimi, diritti come lance, solidi come colonne, i tronchi rossastri si allineano innumerevoli in tutte le direzioni fino alle nereggianti profondità della foresta”.
Lecito impiegare questo fiorito eloquio per le peccete alpine, se si vuole. Altro discorso va fatto per i rimboschimenti appenninici; pure questi hanno avuto i loro estimatori (“che bello, sembra di essere in Svizzera”); bisognerebbe però chiedersi se, sotto gli alberi dominanti, si sono sviluppati giovani esemplari delle generazioni successive, se, a livello del suolo, si è formato uno strato di benefico humus, se gli alberi mantengono intatta tutta la loro chioma (oppure se l’hanno ridotta ad un semplice ciuffo verde sommitale che sormonta monconi di rami desolatamente spogli); e ancora se, in occasione di copiose nevicate, gli alberi sono rimasti indenni o hanno subìto pesanti stroncature (sulle Alpi cade una neve leggera e farinosa; sugli Appennini la regola è che la neve sia pesante, acquosa e destinata a ghiacciare durante la notte se la temperatura scende di vari gradi sotto lo zero); infine, se gli spazi aperti così formatisi sono stati colonizzati da nuovi esemplari di abete rosso oppure da faggi, pioppi tremuli, betulle, sorbi montani, sorbi degli uccellatori ed altre latifoglie. Discorsi che rischiano di condurci fuori tema. L’appuntamento è per un successivo capitolo di questa esposizione, in cui si esamineranno fitocenosi di altre specie di conifere arboree microterme e orofile, quali il versatile pino uncinato, il possente pino cembro, l’utilissimo larice.