Le conseguenze dell'abbandono delle terre coltivate

Diversi metodi di recupero degli ecosistemi a confronto. I risultati di una ricerca effettuata prendendo in considerazione il bacino del mediterraneo

La crescente concorrenza per l’occupazione dei terreni coltivabili, magari per essere utilizzati in modo diverso dall’agricoltura, è uno dei processi più significativi del cambiamento dell'ambiente globale. Anche se oscurato nel dibattito pubblico il fenomeno di abbandono della terra - la cessazione della coltivazione tradizionale - è ugualmente in aumento. Un fenomeno che ha colpito circa 1,47 milioni di km2 in tutto il mondo dal 1700  al 1992 e importante per tutto il 20° secolo in America del Nord, nell'ex Unione Sovietica e in Asia meridionale, seguite poi da Europa, Sud America e Cina dal 1960.

Un insieme di fattori agronomici (ad esempio il calo della fertilità del suolo), sociali, si pensi allo spopolamento delle aree rurali, ed economici, come la globalizzazione dei mercati agricoli, delle materie prime e il calo della redditività agricola, sono i driver che hanno determinato i modelli e i processi di abbandono delle terre. Questo fenomeno ha una vasta gamma di conseguenze sulla fornitura di processi ecosistemici, comprese tutte quelle funzioni non di facile comprensione e spesso discusse solo in ambiti ristretti, come il ciclo dei nutrienti, il sequestro del carbonio, il valore paesaggistico e culturale, il bilancio idrico.

Uno studio realizzato da ricercatori della University of Copenhagen, University of California, e gli istituti sudafricani della Stellenbosch University e African Institute for Mathematical Sciences, ha sviluppato una meta-analisi della letteratura per esaminare le conseguenze dell'abbandono delle terre nel bacino del Mediterraneo.

Due scuole di pensiero evidenziano altrettante alternative al trattamento degli ecosistemi in seguito al fenomeno dell'abbandono. Una è quella rappresentata dal metodo del restauro passivo del paesaggio o “rewilding”. Questa strada agevola il ripristino degli ecosistemi naturali grazie alla riduzione diretta dell'intervento antropico sul paesaggio; numerosi studi confermano, per esempio, che gli uccelli e le grandi popolazioni di mammiferi beneficiano del grande abbandono delle terre.

La seconda alternativa è rappresentata dall'instaurazione di coltivazioni a impatto minimo e fonda i suoi principi teorici riferendosi alla possibile minaccia della diminuzione della biodiversità fornita dall'attività agricola. Il concetto di “alto valore agricolo” è prettamente europeo e riconosce ai metodi colturali a bassa intensità vari aspetti vantaggiosi tra i quali la conservazione della biodiversità, il mantenimento degli habitat, la benefica influenza sulle competizioni e la riduzione del rischio d'incendio.
In una prospettiva più ampia la disputa tra i sostenitori dei due metodi riflette un diffuso dibattito scientifico su come debba essere perseguito il mantenimento della biodiversità: senza intervento (“rewilding”) o con interventi mirati (di “alto valore agricolo”).

Il bacino del Mediterraneo è uno dei 25 hotspots della biodiversità a livello mondiale mostrando elevati livelli di ricchezza endemica di piante e animali. Ci sono numerosi casi di studio sugli impatti derivati dall'abbandono della terra.
Per confrontare questi dati presi su scala locale, i ricercatori hanno effettuato una meta-analisi incentrata sugli effetti del fenomeno di abbandono degli ambienti agroforestali, dei campi seminati, dei pascoli e delle colture permanenti verificando l'abbondanza di specie di piante e animali del bacino del Mediterraneo.

Sulla base di un protocollo di revisione hanno indagato come i gruppi tassonomici (artropodi, uccelli, licheni, piante vascolari) sono colpiti dall'abbandono dei terreni; su quale scala spaziale e temporale è più pronunciato l'effetto dell'abbandono; se l'uso precedente e attuale del territorio influenzano l'entità dei cambiamenti; come la morfologia delle aree in esame e gli aspetti climatici modificano gli effetti del fenomeno. L'intenzione è quella di individuare le lacune nella conoscenza di questo importante cambiamento globale e di informare i soggetti politici coinvolti.

Il complesso dei dati analizzati comprende 154 casi inclusi in 51 studi effettuati tra il 1974 e il 2013.
La meta-analisi ha evidenziato, in linea generale, valori leggermente aumentati nella biodiversità dopo l'abbandono delle terre, questa informazione è, però, derivata da dati molto eterogenei che comprendono anche un 38% di situazioni nelle quali l'abbandono delle terre non ha generato variazioni nella dimensione specifica degli abitanti dell'ecosistema.

Le differenze più pronunciate sono quelle che riguardano i funghi, che sembrano beneficiare particolarmente dell'abbandono delle terre. Questo non può dirsi vero per le piante vascolari e per gli artropodi che non fanno registrare cambiamenti evidenti.

Per quanto riguarda i modelli spazio-temporali sono stati riscontrati aumenti nella biodiversità nelle aree molto grandi e molto piccole (pochissima influenza in quelle di medie dimensioni), e l'impatto più significativo si osserva nei terreni che vedono un periodo di abbandono superiore ai 30 anni.
Negli ambienti coltivati a seminativo e in quelli agroforestali la ricchezza della biodiversità è risultata aumentata dopo l'abbandono, nei pascoli, invece, diminuita. Le colture permanenti non mostrano variazioni. Le aree pianeggianti abbandonate beneficiano in misura maggiore del fenomeno rispetto a quelle montane, la temperatura ha dimostrato di non essere capace di determinare variazioni.

I ricercatori concludono affermando che non ci sono prove sufficienti per sostenere una delle due teorie per quanto riguarda la tutela della biodiversità delle aree interessate dall'abbandono delle terre.