Nuovi studi sul glifosate

Scoperti effetti anche sugli ecosistemi acquatici. Il principio attivo riduce significativamente la normale crescita di Ruppia maritima
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Il glifosate, un erbicida ad ampio spettro, è usato in tutto il mondo per uccidere le erbe infestanti.

Inizialmente venduto con il nome commerciale Roundup nel 1970, questo erbicida è stato rapidamente adottato da tutti gli agricoltori, un processo accelerato dallo sviluppo delle colture resistenti al glifosate, che ha consentito agli agricoltori di aumentare l'efficacia del trattamento, lasciando i raccolti incolumi.

Dopo l'applicazione sui campi agricoli, il glifosate può però percolare nelle acque. È stato infatti ritrovato in corsi d'acqua in varie parti del mondo. Può anche essere utilizzato direttamente in ambienti acquatici per controllare le erbacee e gestire le zone umide, esponendo però la flora acquatica ad alte concentrazioni di composto.

Il glifosate può avere effetti negativi sulle piante acquatiche. Gli studi in materia hanno segnalato una elevata mortalità di Lemna minor, un effetto sulla crescita di Lemna gibba e variazioni nel contenuto di clorofilla di Halophila ovalis e Eichhornia crassipes.


Una recente indagine condotta da un gruppo di ricerca ha esaminato gli effetti del glifosate su una pianta acquatica meno studiata, la Ruppia maritima, una pianta acquatica che cresce in ambienti salini. I prati che forma sono importanti negli ambienti costieri, poiché garantiscono siti di alimentazione per molte specie, assicurano il ciclo dei nutrienti e generano biomassa. La crescita particolarmente rapida e la produzione elevata di biomassa da parte della Ruppia, la rendono estremamente preziosa per il sostentamento della fauna selvatica in ambienti salini.

I ricercatori hanno raccolto campioni di R. maritima da Jansen Lagoon a São Luís Island, in Brasile. Questa laguna si trova vicino ad una delle zone costiere più popolose, dove la maggior parte dei coltivatori usa glifosate per il diserbo, ed è quindi ad alto rischio di tossicità.

Dopo la raccolta, i campioni sono stati acclimatati in condizioni di laboratorio per 30 giorni. Le piante sono state tenute in condizioni che hanno permesso loro di produrre biomassa sufficiente per la crescita e per i test di tossicità. In seguito, delle piante sono state trasferite in soluzioni di glifosate con una gamma di concentrazioni: 0,005, 0,05, 0,5, 5 e 50 milligrammi per litro. Queste replicano l'esposizione derivata dell'acqua superficiale dopo l'applicazione della sostanza chimica alle colture, dove ci sono alte concentrazioni, come pure il deflusso dalla terra, dove sono riscontrate basse concentrazioni.

Dopo sette giorni , i ricercatori hanno misurato il numero di nuove foglie e di quelle morte, numero di radici e lunghezza dei getti, contenuto di clorofilla e peso dei rametti, variabili misurate anche prima dell'esposizione.


I confronti hanno dimostrato che il glifosate ha avuto effetti considerevoli sulla pianta. Il principio attivo ha causato decrementi significativi nel peso umido e secco, nel numero e nella grandezza delle foglie e nel contenuto di clorofilla. Al termine del periodo di esposizione, alcune foglie mostravano anche segni di clorosi, una condizione potenzialmente fatale nella quale le foglie non producono abbastanza clorofilla.

Alle concentrazioni più alte il glifosate è stato letale. Solo una pianta appartenente al gruppo con l'esposizione più alta è arrivata viva alla fine del periodo di sette giorni, ed è stata comunque incapace di produrre nuove foglie.

La scoperta che alte concentrazioni di glifosate possono impedire la crescita di R. maritima, è importante per le politiche di regolamentazione.

Il glifosate infatti, potrebbe ostacolare lo sviluppo dei prati di R. maritima, fondamentali per il mantenimento della biodiversità. È anche probabile che il composto possa compromettere altre specie di piante degli ambienti acquatici come gli estuari.

Gli autori dicono che c'è un chiaro bisogno di regolare meglio l'uso di erbicidi nei pressi dei corsi d'acqua. Tuttavia, anche ulteriori studi sono necessari per valutare gli effetti dell'esposizione a lungo termine, e per verificare la capacità di recupero delle specie non bersaglio.