Olmo, albero dimenticato

In passato, le specie del genere Ulmus erano comunemente impiegate per svariati utilizzi. Disinteresse e, soprattutto, la grafiosi ne hanno minato la diffusione
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La parola “addomesticazione” viene generalmente usata nel caso di animali selvatici che, nel corso dei millenni, sono stati ritenuti utili all’uomo e quindi resi “domestici”. Lo stesso dicasi per molte piante. Il miglioramento genetico e la selezione varietale sono da considerarsi in tutto e per tutto un metodo di “domesticazione” delle piante. Se questo è facile da comprendere quando si parla di colture quali il grano, il riso, le patate o il mais, il concetto è più vago per quanto riguarda le piante arboree forestali o ornamentali. Tuttavia, così come è successo per le piante agrarie, anche queste sono state selezionate, alcune specie favorite, altre fortemente selezionate: si pensi, ad esempio, che il cipresso, una pianta che nell’immaginario collettivo è tipicamente a chioma stretta e fastigiata, nel suo areale naturale, invece, si trova molto più frequentemente a chioma aperta, con un habitus molto più simile a quello dei pini mediterranei, che non stretta. Una delle piante arboree che è stata più utilizzata e, quindi, più addomesticata, è l’olmo.

L’olmo è una specie particolarmente plastica e resistente, caratteristiche che le permettono di colonizzare facilmente spazi aperti; infatti, sopporta bene le potature anche pesanti della chioma e delle radici, si propaga facilmente per talea e per innesto, ha una forte capacità pollonifera e una grande produzione di seme. Inoltre il legno era, e probabilmente lo sarebbe ancora, molto apprezzato per la produzione di mobili di pregio. Anche se non tra le migliori, la legna ha un buon potere calorico; le foglie erano utilizzate in estate come foraggio fresco per il bestiame, la corteccia per la produzione di corde e le mucillagini come medicamento.
A quanto riportato bisogna aggiungere l’utilizzo come tutore vivo della vite, descritto fin dal 45 D.C. dall’agronomo latino Columella nel suo “De re rustica” e persistito in Italia fino alla meccanizzazione spinta dell’agricoltura. Infine, uno degli usi più diffusi in età moderna è quello ornamentale, in particolare come alberatura urbana. Ad esempio, come riportato in questo stesso magazine, le vie ed i canali di Amsterdam (detta “Iepenstad”: la città degli olmi) sono caratterizzati da una presenza massiccia di alberature di olmo.
 
In Italia la specie era ampiamente usata fino all’ultimo conflitto sia in agricoltura sia come alberatura stradale; ad esempio l’ibrido fra campestre e montano (U. x hollandica), particolarmente apprezzato per l’alimentazione del bestiame, era molto comune nelle campagne, tanto che in Toscana era chiamato “Domestico”; in pianura padana l’olmo veniva comunemente usato come tutore della vite fino agli anni settanta e qualche filare sopravvissuto è visibile ancora oggi. Nelle città l’olmo era abbondantemente presente nelle alberature.
 
Questa produttiva associazione si è progressivamente disgregata per una serie di fattori dovuti principalmente al progresso tecnologico. In campagna l’uso del tutore vivo, creava problemi alla meccanizzazione e la foglia non poteva essere sfruttata per la nutrizione del bestiame, a questo si aggiunga che nel secolo scorso l’olmo è stato vittima di una delle patologie più disastrose in campo vegetale: la grafiosi.
La grafiosi è una malattia letale causata da alcuni funghi del gen. Ophiostoma (O. ulmi e O. novo-ulmi), che sono stati introdotti direttamente o indirettamente dall’Asia nel continente europeo in almeno tre eventi separati. In seguito alle introduzioni si sono avute due ondate epidemiche di virulenza crescente che hanno compromesso l’utilizzo dell’olmo. Piante di tutte le dimensioni vengono attaccate e disseccate, ma soprattutto quelle di grandi dimensioni scompaiono dal paesaggio, modificandolo significativamente. La malattia è veicolata da insetti scolitidi che compiono il loro ciclo biologico fra piante malate e sane di olmo, diffondendo così la malattia.
 
Al tempo della prima ondata epidemica, negli anni ’30 del secolo scorso, l’opinione pubblica si mobilitò e furono prese diverse misure e intraprese diverse azioni al fine di contrastare la diffusione della malattia e favorire il reinserimento dell’olmo. Negli anni ’70 quando la seconda epidemia, causata da una specie ancora più aggressiva del patogeno, l’olmo non era già più presente in agricoltura, ma si riteneva ancora importante come “latifoglia nobile” nei nostri boschi. Per continuare a mantenere questa specie, già nei primi anni ’70 venne finanziato un programma di miglioramento genetico per la resistenza alla grafiosi presso l’attuale Istituto per la Protezione Sostenibile delle Piante del C.N.R. di Firenze, sotto la supervisione del Prof. Lorenzo Mittempergher.
 
Il persistere della malattia e la forte diminuzione di interesse anche come specie forestale hanno determinato il progressivo e quasi definitivo abbandono dell’olmo come specie “domestica”; ma questo non ha fermato l’evoluzione naturale. Una volta esaurite le piante infettabili anche l’epidemia è scemata e, grazie proprio alle capacità di propagazione tipiche di una specie pioniera, le piante di olmo sono ricomparse, hanno naturalmente riconquistato i terreni incolti, gli argini dei fossi, le scarpate, contendendo lo spazio a specie esotiche invasive come la robinia o l’ailanto. Da metà degli anni novanta la popolazione naturale di olmo ha così iniziato a rendersi visibile: prima in formazioni a cespuglio e poi dando luogo a gruppetti di piante, probabilmente clonali, dove erano presenti anche individui di notevoli dimensioni. Proprio questo ritorno progressivo e, soprattutto la presenza di piante di dimensioni rilevanti (oltre i 15 cm di diametro a petto d’uomo), ha permesso alla popolazione degli scolitidi di tornare a moltiplicarsi. Il fungo che per anni era rimasto latente o confinato a pochi individui, con scarse possibilità di movimento, ha avuto di nuovo la possibilità di diffondersi in forma epidemica

La conseguenza è stata che, ancora una volta, l’olmo torna a morire. A differenza del secolo scorso, però, il fatto non desta più scalpore e anche se le nostre campagne sono costellate di piante secche, nessuno sembra curarsene, nonostante che, adesso, si abbiano le conoscenze per poter quantomeno limitare i danni. I fossi e le scarpate torneranno ad essere terreno di conquista di robinia e ailanto con buona pace di tutti (conservazionisti, paesaggisti e utilizzatori) se scompare una delle specie arboree che per millenni ha accompagnato fedelmente la vita dell’uomo.